Il reato di diffamazione a mezzo social network

Facebook nuovamente sottotiro. Aveva offeso pesantemente l’ex fidanzata su Facebook commentando una fotografia e ora dovrà pagare 15 mila euro come risarcimento per il danno morale arrecato alla donna. Lo ha deciso il giudice Piero Calabrò del Tribunale civile di Monza che ha accolto la richiesta di risarcimento avanzata dalla donna. Nelle motivazioni il giudice ha sottolineato che il commento affidato a Facebook rappresenta «una lesione dell’onore, della reputazione e del decoro» dell’ex fidanzata. In base a questo il giudice ha deciso che la donna ha subito un danno morale soggettivo inteso come «turbamento dello stato d’animo della vittima del fatto illecito, vale a dire come complesso delle sofferenze inferte alla danneggiata dall’evento dannoso, indipendentemente dalla sua rilevanza penalistica».
Una volta la diffamazione era un reato tipico dei giornalisti, per cui si rischiavano belle multe e sanzioni disciplinari. Oggi però, grazie al web, un po’ tutti possono esprimere opinioni su chiunque nei blog, nei social network come Facebook o Twitter. E spesso le frasi messe in rete possono raggiungere un pubblico molto vasto. Per questo «Facebook non può sottrarsi alle regole del diritto comune e gli utenti dei social network non possono invocare la spazialità virtuale quale esimente per le loro affermazioni e i loro comportamenti.» Perché anche se lo spazio in cui scriviamo è telematico, e a noi sembra per questo motivo inesistente, i diritti della personalità così come i beni morali vanno sempre tutelati.
Il reato in cui più facilmente possono incorrere gli utilizzatori di Facebook è la diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità: le pene possono arrivare fino a tre anni, con possibili risarcimenti danni da migliaia di euro. A configurare il reato, non solo le offese esplicite all'altrui reputazione, ma anche la pubblicazione di foto di amici in atteggiamenti imbarazzanti o qualche battuta di troppo. «Potrebbe integrare il reato di diffamazione anche taggare un amico un po' ubriaco in un locale equivoco - spiega l'avvocato Riccardo Lottini di Grosseto - in caso di querela non ci si può nemmeno difendere sostenendo che l'amico aveva prestato il consenso a farsi fotografare: l'utilizzo, se lesivo della reputazione, è comunque illecito».
La diffamazione in questo caso non è semplice ma, appunto, aggravata dal mezzo di pubblicità. Perché se parliamo male di qualcuno in una cena tra amici è probabile che la notizia si diffonda, ma se lo scriviamo nero su bianco in internet allora la notizia può fare il giro del mondo. Così le pene possono arrivare fino a tre anni, con possibili risarcimenti danni da migliaia di euro.
Ma non sono solo le parole che vanno misurate: perché anche la pubblicazione di foto di amici in atteggiamenti imbarazzanti può creare qualche problema, se prima non abbiamo avuto il loro consenso alla pubblicazione. La goliardata tra amici può costare cara e integrare un’ipotesi di responsabilità civile.
E se dovessimo avere davanti delle persone piuttosto irascibili, la nostra foto potrebbe anche configurare un danno all’immagine che sarà poi valutato in relazione al caso concreto. Niente da fare nemmeno per le mogli gelose che, con una falsa identità, tentano di scovare la relazione adulterina del marito. La sostituzione di persona è un reato punito con la reclusione fino ad un anno.
Ancora diverso è il caso del dipendente che crea un gruppo contro il proprio datore di lavoro, o che comunque gli rivolge critiche pubbliche. In Inghilterra una lavoratrice è stata licenziata perché su Facebook aveva definito noioso il proprio lavoro: una misura del genere pare eccessiva per la prassi giurisprudenziale italiana, che pure ritiene che vi siano limiti all'esercizio del diritto di critica da parte del dipendente, che non deve essere sproporzionato ed eccedere i limiti della continenza. Attenzione però al ruolo ricoperto in azienda: se a criticare è un dirigente, la potenzialità lesiva delle critiche rivolte all'impresa è di massima maggiore, per cui anche la reazione disciplinare può essere più rigorosa.
Fonte: Ansa, Il Sole 24 Ore
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